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La Stampa, intervista al Papa: “Don Bosco ha cambiato un po’ la storia. Anche con riflessioni culturali. E pure attraverso conversazioni con chi lo contrastava”

In una intervista rilasciata a Domenico Agasso de La Stampa, il Papa ha parlato anche di Don Bosco.

Il 31 gennaio è la festa di don Giovanni Bosco, «il Santo dei giovani»: che cosa insegna ancora oggi?

«Pare che una volta don Bosco abbia detto: “Se volete avere e aiutare dei giovani buttate un pallone sulla strada”. Il fondatore dei Salesiani e delle Figlie di Maria Ausiliatrice è stato capace di chiamare, coinvolgere ed entusiasmare i ragazzini senza futuro, e dare loro un futuro. Come? Con gli oratori. Lì i giovani giocavano, pregavano e imparavano. Per migliaia di piccoli abbandonati, disperati, destinati a un’esistenza di stenti e di esclusione, don Bosco ha tracciato la via di un avvenire di dignità e speranza. Ha fornito loro gli strumenti intellettuali e spirituali per superare gli ostacoli e valorizzare la propria vita. E ci è riuscito nonostante attacchi feroci: non dimentichiamoci che il Santo di Valdocco ha vissuto nell’epoca del Piemonte massonico e mangiapreti, e in quell’ambiente ostile è stato capace di trasformare in meglio l’atteggiamento sociale del territorio nei confronti dei giovani. Don Bosco ha cambiato un po’ la storia. Anche con riflessioni culturali. E pure attraverso conversazioni con chi lo contrastava».

L’intervista poi ha trattato i temi di attualità, la guerra, la pace e i giovani:

Santità, il mondo è nel pieno della «guerra mondiale a pezzi» da cui Lei aveva messo in guardia anni fa…
«Mai mi stancherò di ribadire il mio appello, rivolto in particolare a chi ha responsabilità politiche: fermare subito le bombe e i missili, mettere fine agli atteggiamenti ostili. In ogni luogo. La guerra è sempre e solo una sconfitta. Per tutti. Gli unici che guadagnano sono i fabbricanti e i trafficanti di armi. È urgente un cessate il fuoco globale: non ci stiamo accorgendo, o facciamo finta di non vedere, che siamo sull’orlo dell’abisso». Esiste una «guerra giusta»? «Bisogna distinguere e stare molto attenti ai termini. Se ti entrano in casa dei ladri per derubarti e ti aggrediscono, tu ti difendi. Ma non mi piace chiamare “guerra giusta” questa reazione, perché è una definizione che può essere strumentalizzata. È giusto e legittimo difendersi, questo sì. Ma per favore parliamo di legittima difesa, in modo da evitare di giustificare le guerre, che sono sempre sbagliate».

Come descrive la situazione in Israele e Palestina?

«Adesso il conflitto si sta drammaticamente allargando. C’era l’accordo di Oslo, tanto chiaro, con la soluzione dei due Stati. Finché non si applica quell’intesa, la pace vera resta lontana». Che cosa teme più di tutto? «L’escalation militare. Il conflitto può peggiorare ulteriormente le tensioni e le violenze che già segnano il pianeta. Però allo stesso tempo in questo momento coltivo un po’ di
speranza, perché si stanno svolgendo riunioni riservate per tentare di arrivare a un accordo. Una tregua sarebbe già un buon risultato». Come sta agendo la Santa Sede in questa fase degli scontri in Medio Oriente? «Una figura cruciale è il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme dei Latini. È un grande. Si muove bene. Sta provando con determinazione a mediare. I cristiani e la gente di Gaza – non intendo Hamas – hanno diritto alla pace. Io tutti i giorni videochiamo la parrocchia di Gaza. Ci vediamo nello schermo di Zoom, parlo alla gente. Lì in parrocchia sono 600 persone. Stanno continuando la loro vita guardando ogni giorno la morte in faccia. E poi, l’altra priorità è sempre la liberazione degli ostaggi israeliani».

E come procede la diplomazia vaticana sul fronte del conflitto in Ucraina?

«Ho dato l’incarico di questa missione complicata e delicata al cardinale Matteo Zuppi, presidente della Conferenza episcopale italiana: è bravo ed esperto, sta attuando una costante e paziente opera diplomatica per mettere da parte le conflittualità e costruire un’atmosfera di riconciliazione. È andato a Kiev e a Mosca, e poi a Washington e a Pechino. La Santa Sede sta cercando di mediare per lo scambio di prigionieri e il rientro di civili ucraini. In particolare stiamo lavorando con la signora Maria Llova-Belova, la commissaria russa ai diritti dell’infanzia, per il rimpatrio dei bambini ucraini portati con la forza in Russia. Qualcuno è già tornato nella sua famiglia».

Quali sono i pilastri su cui costruire la pace nel mondo?

«Dialogo. Dialogo. Dialogo. E poi, la ricerca dello spirito di solidarietà e fraternità umana. Non possiamo più ucciderci tra fratelli e sorelle! Non ha senso!».

Lei invita sempre alla preghiera: quanto conta e può incidere mentre il mondo brucia?

«La preghiera non è astratta! È una lotta con il Signore affinché ci dia qualcosa. La preghiera è concreta. E forte, e incisiva. La preghiera conta! Perché prepara il cammino verso una pacificazione, bussa alla porta del cuore di Dio affinché illumini e conduca gli esseri umani verso la pace. La pace è un dono che Dio può darci anche quando sembra che la guerra stia prevalendo  inesorabilmente. Per questo insisto in ogni occasione: bisogna pregare per la pace».

Lei a Lisbona, la scorsa estate, di fronte a milioni di giovani ha gridato con forza che la Chiesa è per «todos, todos todos»: rendere la Chiesa aperta a tutti è la grande sfida del suo pontificato?

«È la chiave di lettura di Gesù. Cristo chiama tutti dentro. Tutti. C’è proprio una parabola: quella del banchetto nuziale al quale nessuno si presenta, e allora il re manda i servi “ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze”. Il Figlio di Dio vuole far capire che non desidera un gruppo selezionato, un’élite. Poi qualcuno magari entra “di contrabbando”, ma a quel punto è Dio a occuparsene, a indicare il percorso. Quando mi interrogano: “Ma possono entrare pure queste persone che sono in tale inopportuna situazione morale?”, io assicuro: “Tutti, l’ha detto il Signore”. Domande come questa mi arrivano soprattutto negli ultimi tempi, dopo alcune mie decisioni…».

In particolare la benedizione delle «coppie irregolari e dello stesso sesso»…

«Mi chiedono come mai. Io rispondo: il Vangelo è per santificare tutti. Certo, a patto che ci sia la buona volontà. E occorre dare istruzioni precise sulla vita cristiana (sottolineo che non si benedice  l’unione, ma le persone). Ma peccatori siamo tutti: perché dunque stilare una lista di peccatori che possono entrare nella Chiesa e una lista di peccatori che non possono stare nella Chiesa? Questo non è Vangelo».

Durante la seguitissima intervista televisiva a Fabio Fazio nella trasmissione Che Tempo Che Fa ha parlato del prezzo della solitudine che deve pagare dopo un passo come questo: come sta vivendo la levata di scudi di chi insorge?

«Chi protesta con veemenza appartiene a piccoli gruppi ideologici. Un caso a parte sono gli africani: per loro l’omosessualità è qualcosa di “brutto” dal punto di vista culturale, non la tollerano. Ma in generale, confido che gradualmente tutti si rasserenino sullo spirito della dichiarazione “Fiducia supplicans” del Dicastero per la Dottrina della Fede: vuole includere, non dividere. Invita ad accogliere e poi affidare le persone, e affidarsi, a Dio».

Soffre per la solitudine?

«La solitudine è variabile come la primavera: in quella stagione puoi trascorrere una giornata bellissima, con il sole, il cielo azzurro e una brezza piacevole; 24 ore dopo magari il clima ti incupisce. Tutti viviamo solitudini. Chi dice “io non so che cos’è la solitudine” è una persona acui manca qualcosa. Quando mi sento solo innanzitutto prego. E quando percepisco tensioni attorno a me, provo con calma a instaurare dialoghi e confronti. Ma vado comunque sempre avanti, giorno dopo giorno».

Teme uno scisma?

«No. Sempre nella Chiesa ci sono stati gruppetti che manifestavano riflessioni di colore scismatico… bisogna lasciarli fare e passare… e guardare avanti».

Siamo all’alba di una nuova era segnata dall’Intelligenza artificiale: quali sono le sue speranze e le sue preoccupazioni?

«Qualsiasi novità scientifica e tecnologica deve avere carattere umano, e permettere agli esseri umani di rimanere pienamente umani. Se si perde il carattere umano si perde l’umanità. Nel Messaggio per la Giornata mondiale delle Comunicazioni sociali ho scritto: “In quest’epoca che rischia di essere ricca di tecnica e povera di umanità, la nostra riflessione non può che partire dal cuore umano”. L’Intelligenza artificiale è un bel passo in avanti che potrà risolvere molti problemi, ma potenzialmente, se gestita senza etica, potrà anche provocare tanto male all’uomo. L’obiettivo da porsi è che l’Intelligenza artificiale sia sempre in armonia con la dignità della persona. Se non ci sarà quest’armonia, sarà un suicidio».

Dio troverà ancora posto in mezzo ai robot?

«Dio c’è sempre. Lui si arrangia. È sempre vicino a noi, pronto ad aiutarci, anche quando non ce ne accorgiamo. Anche quando non lo cerchiamo. Anche quando non lo vogliamo. E se vede che le
derive sono sfrenate, si fa sentire. Nei suoi modi, che superano tutto e tutti».

Come va la sua salute?

«Qualche acciacco c’è, ma adesso va meglio, sto bene».

Le dà fastidio sentire parlare delle sue possibili dimissioni a ogni colpo di tosse?

«No, perché la rinuncia è una possibilità per ogni pontefice. Ma adesso non ci penso. Non mi inquieta. Se e quando non ce la farò più, inizierò eventualmente a ragionarci. E a pregarci su».

Quali potrebbero essere i suoi viaggi del 2024?

«Uno in Belgio. Un altro a Timor Est, Papua Nuova Guinea e Indonesia, ad agosto. Poi c’è l’ipotesi Argentina, che però tengo per adesso “tra parentesi”: l’organizzazione della visita non è ancora cominciata. Per quanto riguarda l’Italia, andrò a Verona a maggio, e a Trieste a luglio».

Il neo presidente argentino Javier Milei l’ha attaccata più volte e con irruenza in questi mesi: si è sentito offeso?

«No. Le parole in campagna elettorale vanno e vengono».

Lo incontrerà?

«Sì. L’11 febbraio verrà alla canonizzazione di “Mama Antula”, fondatrice della Casa per Esercizi spirituali di Buenos Aires. Prima delle canonizzazioni è consuetudine il saluto con le autorità in sacrestia. E poi so che ha chiesto appuntamento per un colloquio con me: ho accettato, e dunque ci vedremo. E sono pronto a iniziare un dialogo – parola e ascolto – con lui. Come con tutti».

Perché ha istituito la Giornata mondiale dei Bambini?

«Perché mancava. Ne percepivo il bisogno. A novembre abbiamo realizzato quell’incontro con migliaia di bimbi e ragazzini giunti da tutto il pianeta nell'”Aula Paolo VI”: è andato molto bene. Il 25 e 26 maggio a Roma ci sarà la prima Giornata ufficiale. Lo scopo è suscitare meditazioni e azioni per rispondere ai quesiti: “Che tipo di mondo desideriamo lasciare ai bambini che stanno crescendo? Con quali prospettive?”. Se li ascoltiamo e li osserviamo, i bambini sono maestri di vita per noi adulti e anziani, perché sono puri, genuini e spontanei. Ogni loro comportamento, anche quello più complicato e apparentemente indecifrabile, è una lezione. Se ci impegniamo per il loro bene, faremo del bene a noi stessi. E all’umanità intera».

Qual è il suo sogno per la Chiesa che verrà?

«Seguire la bella definizione della “Dei Verbum”, la costituzione dogmatica del Concilio Vaticano II: “Dei Verbum religiose audiens et fidenter proclamans”, ascoltare religiosamente la Parola di Dio e proclamarla con ferma fiducia, e con forza. Sogno una Chiesa che sappia essere vicina alla gente nella concretezza e nelle sfumature e nelle asperità della vita quotidiana. Io continuo a pensare ciò che ho detto nelle Congregazioni generali, le riunioni dei cardinali che precedono il Conclave: “La Chiesa è chiamata a uscire da se stessa e a dirigersi verso le periferie, non solo quelle geografiche ma anche quelle esistenziali: quelle del mistero del peccato, del dolore, dell’ingiustizia, quelle dell’ignoranza e dell’assenza di fede, quelle del pensiero, quelle di ogni forma di miseria”».

Che cosa ricorda delle giornate storiche del marzo di undici anni fa?

«Dopo il mio intervento è scattato un applauso, inedito in tale contesto. Ma io assolutamente non avevo intuito ciò che molti mi avrebbero poi rivelato: quel discorso è stata la mia “condanna” (sorride, nda). Quando stavo uscendo dall'”Aula del Sinodo” c’era un cardinale di lingua inglese che mi ha visto e ha esclamato: “Bello quello che hai detto! Bello. Bello. Ci vuole un Papa come te!”. Ma io non mi ero accorto della campagna che stava nascendo per eleggermi. Fino al pranzo del 13 marzo, qui a Casa Santa Marta, alcune ore prima della votazione decisiva. Mentre stavamo mangiando, mi hanno posto due o tre interrogativi “sospetti”… Allora nella mia testa cominciavo a dirmi: “Qui sta accadendo qualcosa di strano…”. Ma sono comunque riuscito a fare una siesta. E quando mi hanno eletto ho avuto una sorprendente sensazione di pace dentro di me». E oggi come si sente? «Mi sento un parroco. Di una parrocchia molto grande, planetaria, certo, ma mi piace mantenere lo spirito da parroco. E stare in mezzo alla gente. Dove trovo sempre Dio».

Nuovi cardinali: a colloquio con il Rettor Maggiore, Don Ángel Fernández Artime, SDB

Dall’agenzia ANS.

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(Roma, 24 ottobre 2023) – Avrebbe avuto ottime possibilità di intraprendere con successo all’università gli studi in medicina, con una borsa di studio già predisposta per l’occasione. E nei mesi estivi – almeno per un po’ – avrebbe potuto così continuare ad aiutare il padre nella pesca nel golfo di Biscaglia davanti al villaggio asturiano di Luanco. Invece – alla fine degli studi medio-superiori – sentì il richiamo religioso, divenne salesiano… con incarichi di sempre maggiore responsabilità fino a quando nel 2014 fu scelto come decimo successore di don Giovanni Bosco, santo tra i più amati. Oggi Don Ángel Fernández Artime è anche cardinale di Santa Romana Chiesa, creato da Papa Francesco il 30 settembre scorso.  In deroga al ‘motu proprio’ del 1962 di Giovanni XXIII non è stato ancora consacrato vescovo. Si presume che lo sarà dopo che il 31 luglio 2024 avrà rassegnato le dimissioni da Rettor Maggiore per assumere l’incarico prefigurato per lui da Papa Francesco.

Avevamo incontrato Don Ángel nel dicembre 2022 grazie alla possibilità offerta a una trentina di vaticanisti di conoscere i luoghi originari del carisma salesiano a Torino e dintorni. Giorni piacevoli tra la prima neve, tante scoperte storiche e artistiche, spirituali, sociali (le opere create a beneficio dei giovani in Piemonte e in tutto il mondo), anche gastronomiche. Al penultimo giorno la ciliegina sulla torta: l’incontro sostanzioso nei tempi e nei contenuti con il Rettor Maggiore. A distanza di una decina di mesi eccoci ora qui, davanti alla stazione Termini, a via Marsala 4,2 dove attorno alla Basilica del Sacro Cuore – anch’essa, come Santa Maria Ausiliatrice a Torino-Valdocco, voluta da Don Bosco – sorge uno dei luoghi salesiani romani più famosi…

Rettor Maggiore, Eminenza, introducendo con un saluto a Lei indirizzato la celebrazione eucaristica del primo ottobre scorso nella Basilica romana e salesiana del Sacro Cuore – era per Lei la prima Messa da cardinale – don Stefano Martoglio, il suo Vicario, ha espresso tra l’altro il senso di  gioioso stupore suscitato dalla Sua nomina: “Tu, Angel, figlio di Angel e Isabel, fratello di Rocío, Figlio di Don Bosco per vocazione, chiamato al servizio della Chiesa ad un livello grandissimo di confidenza e di responsabilità”. In questa frase emerge in primo luogo la Sua famiglia…

Sono una di quelle persone per le quali le radici sono molto importanti. E io nelle mie radici porto un grande amore per la mia famiglia, con i miei genitori già in Paradiso – mia mamma da tre mesi – per la mia origine di pescatore, per il mio essere nato e cresciuto in un paesino di pescatori, per avere avuto in famiglia cinque generazioni di pescatori, per essere andato con papà in mare nei mesi di giugno, luglio, agosto, settembre da quando avevo tredici anni…

D’estate si pesca certo di più…

E’ il miglior momento dell’anno. D’inverno è molto difficile a causa del mare, il Golfo di Biscaglia. Tutto questo che ho ricordato, come può capire, è restato impresso nella mia carne e mi ha dato forma. Mi ha aiutato a crescere fisicamente, ma soprattutto ha stimolato la mia attrazione per la bellezza della natura, la mia sensibilità per il dono della vita… come quando vedevo papà rientrare la mattina dopo una nottata a pescare. Ho imparato fin da piccolo a ringraziare Dio per questi doni. La mia era una famiglia credente e mi ricordo bene che si recitava il Rosario con la nonna. Questo è stato il mio contesto originario di vita. Lo porto nel mio dna, lo porto nel sangue. Mi sento orgoglioso delle mie origini molto semplici, molto umili.

Nel saluto di don Martoglio in evidenza anche quel “Figlio di don Bosco per vocazione”…

Io non conoscevo i salesiani: sono andato a studiare da loro perché una turista ultrasettantenne che veniva d’estate a Luanco aveva sviluppato negli anni un’amicizia solida con mio padre. Un giorno – io avevo 12 anni – gli chiese che cosa pensasse del mio futuro. Papà rispose che io avrei fatto il pescatore come lui. Lei osservò che ero ben sveglio e che conosceva  dei religiosi che si occupavano dell’istruzione dei giovani. I miei genitori obiettarono allora che non sarebbero mai riusciti a pagare la retta, ma lei li rassicurò: “Vedrete che non sarà così cara!”.

Come andò a finire?

I miei genitori accettarono di rinunciare ad avermi con loro tutti i giorni… fu una grande sofferenza specie per mia mamma. Sono così andato a studiare dai salesiani, a 200 chilometri da casa.

E poi, alla fine degli studi medi, cosa successe?

Avevo ormai ben preparato l’accesso alla Facoltà di Medicina e Chirurgia. Per me era già stata stabilita una borsa di studio consistente, dato che i miei erano di condizione modesta. La medicina la sentivo come vocazione… la sento un po’ anche oggi dentro di me… penso che sarei stato un buon medico di famiglia! Nel contempo però allora sentivo anche, sempre più forte, l’esigenza di chiarirmi con me stesso, perché gli anni dai salesiani mi erano piaciuti molto … apprezzavo tanto il loro lavoro con i giovani. All’ultima estate al mare condivisi con i genitori i miei pensieri, prospettando di diventare un religioso salesiano. Papà e mamma mi dissero: “Figliolo, è la tua vita. Se questo ti renderà felice, va’… non preoccuparti per noi”! Se mio padre mi avesse detto invece: “No, Angelavrò sempre bisogno di te, del tuo aiuto!”, io avrei rinunciato a diventare salesiano, avrei fatto il medico, d’estate avrei continuato ad aiutare papà. Il momento della domanda della turista e il ‘sì’ dei genitori, il momento della scelta religiosa e l’altro ‘sì’ dei genitori…. non posso non leggere nel nascere e nel concretizzarsi della mia vocazione due grandi interventi di Dio!

Parliamo del Suo stemma, che nella prima sezione dello scudo riporta una figura ben conosciuta…

La figura, molto cara a noi salesiani tanto che la portiamo nella croce che tutti indossiamo, è quella di Gesù Buon Pastore, che ritroviamo anche nelle catacombe di San Callisto. Datata agli inizi del III secolo, è presente dappertutto: negli affreschi, nei rilievi dei sarcofagi, nelle statue. Per noi il Buon Pastore incarna il dna di un salesiano. Nella seconda sezione dello scudo ecco il monogramma MA, Maria Ausiliatrice. Come don Bosco noi salesiani imploriamo sempre la sua protezione. Del resto è lei che ha fatto tutto per noi. Nella terza sezione vediamo l’ancora che per me ha un doppio significato. Da una parte sta nello scudo salesiano e vuole significare quella speranza e solidità che noi salesiani dobbiamo possedere; dall’altra l’ancora rimanda alle mie radici di pescatore, alla mia famiglia, al mio villaggio. Come ho detto, per me è qualcosa di molto importante.

Lo stemma riporta anche un motto: Sufficit tibi gratia mea

È stata una scelta del tutto personale, perché esprime come mi sento e come mi sono sentito per tutta la mia vita fino ad oggi. Come salesiano ho vissuto quello che io mai avrei scelto. Ispettore, qualche anno anche in Argentina, poi Rettor Maggiore. Vivo adesso il cardinalato in obbedienza a una decisione del Santo Padre. Come ha detto il Signore a san Paolo: “Ti basti la mia grazia”.

Nella Sua biografia troviamo come da Lei accennato anche un periodo da Ispettore in Argentina dal 2009 al 2013. Lei può facilmente immaginare la domanda connessa…

Certo, ho conosciuto Papa Francesco come Cardinale Arcivescovo a Buenos Aires negli anni 2009-2013 quand’ero Superiore dell’Ispettoria in Argentina. Mai questa conoscenza “anticipata” me la metterò come una medaglia di merito. Con l’allora arcivescovo di Buenos Aires ho avuto un rapporto come è stato il caso per tanti altri, sacerdoti e religiosi, Provinciali compresi. Per me era comunque sempre bello riceverlo ogni 24 maggio quando veniva nella Basilica di Santa Maria Ausiliatrice nel quartiere di Almagro: in quella zona avevano vissuto i suoi genitori e lì era stato battezzato.

Papa Francesco L’ha ricevuta l’11 luglio scorso, dopo l’annuncio della creazione a cardinale. Per l’occasione Lei ha rievocato così l’udienza concessa al Capitolo generale salesiano che L’aveva eletta per il prìmo mandato da Rettor Maggiore: “Santo Padre, mi permetta di ricordarle una cosa: 10 anni fa, Lei mi disse: ‘Eh, gallego, che cosa ti hanno fatto!’. Adesso sono io a dirglielo: ‘Santo Padre, che cosa mi ha fatto Lei!’.  Mi è venuta una curiosità: perché il Papa l’ha definita gallego se Lei non è della Galizia ma delle Asturie?

Il fatto è che per gli argentini ogni spagnolo è un gallego, perché le prime grandi migrazioni di spagnoli erano di galiziani… in Galizia c’era tanta fame, specie dopo la fine della Guerra civile. Un contadino con un piccolo pezzo di terra non era in grado di far vivere una famiglia con quattro o cinque figli. L’Argentina era un porto sicuro. D’altra parte in quegli anni era una potenza guidata da Juan Domingo Peron e generosamente aiutava la Spagna inviando frumento e burro. Lo sa anche che ogni italiano è chiamato tano? Perché?

…Non riesco a trovare il nome di una regione che suggerisca di usare tano

Difatti tano è il finale di un appellativo che riguarda una città: Napoli. Napoletano è troppo difficile e lungo da pronunciare… Perciò gli argentini dicono tano per ogni italiano. E l’emigrazione italiana è stata la più numerosa in Argentina. Italiani e spagnoli sono popoli che hanno sperimentato sulla propria pelle gioie e dolori, speranze e delusioni dell’emigrazione…

Al centro del carisma salesiano stanno i giovani. Dopo nove anni di Rettorato Lei ha visitato almeno 110 Paesi…)

Saranno 120 a novembre, sui 135 in cui siamo presenti.

… Dunque ha conosciuto giovani di origini diversissime. C’è qualcosa di comune a tutti i giovani nel mondo? Alla recente GMG di Lisbona è emerso questo filo rosso, caratterizzato però da una fede profonda in Gesù Cristo. Nelle loro scuole e nei loro centri professionali i salesiani ospitano giovani di ogni provenienza… secondo la Sua esperienza c’è comunque qualcosa che unisce tutti nel profondo?

Sì. Le culture sono diverse, le lingue sono diverse, gli ambienti di vita sono diversi. Se confrontiamo la vita di un giovane della Cambogia, di uno di Madrid, di un terzo, un giovane indio Shuar dell’Ecuador la differenza è enorme anche in un mondo come il nostro, che è stato definito ‘villaggio globale’.  Però, dopo quasi dieci anni di incontri in tanti Paesi, mi sono ormai convinto di una cosa: tutti i giovani del mondo, quando vedono che un adulto si avvicina con uno sguardo di amicizia, di apertura di cuore, si avvicina pensando al loro bene e per essere al loro servizio, si rivelano molto accoglienti. I giovani mai chiudono le porte. I duri siamo noi adulti, quelli che portano tante ferite di guerra nella vita siamo noi adulti… E’ vero: tanti giovani a volte si sono persi per i peccati strutturali del nostro mondo… però i giovani hanno un cuore accogliente.

Sto pensando a tanti giovani africani: perché emigrano? Non ci sono possibilità reali, concrete che possano restare nei loro Paesi per collaborare al loro sviluppo? Voi salesiani avete tante scuole e centri di formazione professionale anche in Africa… che cosa Le suggerisce la Sua esperienza? Tanti giovani seguono i pifferai magici che descrivono loro l’Europa come quell’Eldorado che spesso invece non è…

Bellissima domanda. Credo che la mia risposta sarà pure molto chiara. Parlo dapprima di noi Salesiani, che siamo presenti in quasi tutte le nazioni africane e cerchiamo di evangelizzare anche attraverso educazione e formazione. Sono delle priorità per noi. Sono stato in Africa tante volte da Ispettore…per esempio nel Senegal… Qual era e rimane la nostra intenzione? Fornire ai giovani una formazione adeguata in tre anni di studi, riuscire a dare a ciascuno uno scatolone con l’attrezzatura per poter lavorare, così che sia possibile per loro condurre una vita dignitosa, guadagnare qualche soldo, restare in contatto con la famiglia. L’abbiamo fatto e continuiamo a farlo.  Infatti sono in tanti a non essere emigrati, perché grazie a noi – e a molti altri che lavorano come noi – hanno trovato una sistemazione onorevole.

Un servizio il vostro che è stato e resta preziosissimo… però, se passiamo a un livello generale africano, la situazione è diversa…

Bisogna aiutare in modo più incisivo lo sviluppo di tanti Stati africani. Gli investimenti fatti ad esempio dall’Unione europea, dando fiumi di denaro all’uno o all’altro Paese per costruire strutture che frenino l’immigrazione – insomma campi di migranti –sono destinati al fallimento poiché gli ospiti prima o poi andranno via considerate le prevedibili condizioni di vita nel campo. Per contro l’Unione europea dovrebbe considerare con più attenzione, con maggiore serietà gli investimenti sulla formazione professionale dei giovani, finanziando la rete di chi già opera in quel campo (lo ripeto: non siamo solo noi, siamo ormai in tante istituzioni!): questo è, secondo me, un investimento che darebbe molti buoni frutti!  In sintesi: dobbiamo fare tutto il possibile perché le mafie non possano più portare per 2, 3, 5mila euro su barche artigianali persone che sono attratte dal presunto Eldorado che si chiama Europa.

Prima accennava a un’esperienza significativa, molto istruttiva, ancora in Senegal…  

Sì, torniamo al Senegal, un Paese che conosco bene. Conosco anche le sue coste e l’incredibile cultura della pesca che si registra non solo in riva al mare. Ottanta anni fa, anche quaranta, nessuno avrebbe mai pensato a una emigrazione massiccia, dato che in Senegal la pesca dava da vivere dignitosamente. In anni più recenti, tuttavia, numerose flottiglie di pescherecci esteri – purtroppo ci devo mettere anche quelli spagnoli – hanno ridotto del 70% la possibilità di pesca dei senegalesi. Certo ciò è avvenuto attraverso accordi tra governi. Però la conseguenza è che i figli dei pescatori non hanno più in molti casi la possibilità di guadagnare quel tanto che basta per una vita dignitosa. Noi europei dobbiamo prendere veramente sul serio le nostre affermazioni sull’aiuto ai popoli africani in loco per evitare le migrazioni. Gli aiuti in dollari ai governi non servono. Perché invece – e lo ripeto – non investire invece nella formazione professionale dei giovani?

Passiamo alla condizione dei giovani europei: la loro quotidianità è diversa rispetto a quella di tanti coetanei africani, ma i problemi cui sono confrontati sono pure complessi e anche drammatici. Se pensiamo alla religione, da una parte sempre più giovani europei – bombardati da messaggi culturali individualisti che indeboliscono la persona umana (di cui si riduce pure la sacralità) attraverso un allentamento delle relazioni sociali e un indebolimento dell’identità anche sessuale – stanno perdendo la fede, rifiutando esplicitamente il cristianesimo o chiudendosi in un indifferentismo molto inquietante…

Quello che ha rilevato è certamente vero, ma per avere un quadro completo della complessa condizione giovanile europea oggi, che poi può portare alla perdita della fede, c’è da aggiungere un altro elemento essenziale: dobbiamo confrontarci con giovani fragili sì, eppure in genere molto più istruiti delle generazioni precedenti o almeno potenzialmente più competenti. Parlano più lingue e sanno muoversi molto di più al di là delle proprie frontiere, sono flessibili grazie anche all’utilizzazione di nuovi strumenti preziosi di conoscenza e operativi che ai nostri tempi non esistevano. E tuttavia questa generazione di giovani porta un macigno sulle proprie spalle: il proprio futuro …

In effetti come possono programmare la propria vita se molti di loro – non per scelta propria – vivono nella precarietà?

Secondo dati che sono frutto di indagini recenti, Spagna e Italia hanno un’età media di emancipazione dalla famiglia tra 28 anni e mezzo e 32. Ma a 32 anni si è uomini o donne, non si è più catalogabili tra i giovani! Si abita ancora con i genitori, perché non si ha modo di costruirsi una vita al di fuori della famiglia. Lo dico con dolore per la mia Spagna: il 40% dei giovani spagnoli non trova lavoro. In Italia meno, ma è sempre una percentuale molto alta. Manca la stabilità che consente la formulazione di un programma esistenziale.  Certo non è una questione solo di lavoro, ma anche di senso della vita. A volte le scelte si devono fare… ma, se il futuro è incerto, si tende a rimandarle… con la conseguenza che nei giovani si sta affievolendo ad esempio il senso della maternità e della paternità. Davanti alle grandi scelte tanti giovani oggi sono titubanti, prendono tempo, perché non sanno quello che ciò potrà comportare per loro… anche il matrimonio, l’avere un figlio…

Questo dei giovani e dei loro problemi in una società fluida e contraddittoria come la nostra è un tema che meriterebbe un ancor maggiore approfondimento. Però questa intervista la dobbiamo pur concludere e allora non possiamo né vogliamo ignorare un tema che oggi ci lacera non solo per il dolore ma anche per l’apparente impossibilità concreta di ridurne l’impatto sulla quotidianità di noi tutti: il tema della guerra…

Questo tema ci fa soffrire. La penso come papa Francesco e altri che ne condividono il pensiero: stiamo vivendo una nuova Guerra mondiale, ma a pezzetti. Ho maturato nella mia vita una convinzione: nessuna guerra ha senso. Oggi se possibile ancora di più. Una volta le guerre erano più frequenti, ma paradossalmente meno pericolose. Tu trafiggevi con una spada chi ti stava di fronte, mentre adesso premi un bottone e puoi mandare un missile senza sapere chi e quanti ne ucciderai.

Nel dibattito pubblico spesso si osserva che non tutte le guerre sono uguali…

Ripeto: la guerra è assurda di per sé. Si può dibattere sulle colpe dell’uno e dell’altro, su chi ha incominciato e su chi ha reagito, sulla ferocia del fondamentalismo… ma la domanda (e constatazione) fondamentale resta una sola: quanti morti ci siamo già caricati sulle spalle in Ucraina, quanti soldati e civili ucraini e russi? E di quanti morti di ogni provenienza e di ogni età ci siamo caricati in Terrasanta con il terrorismo di Hamas e la risposta di Israele?  Quanti morti? Quanti morti? Migliaia e migliaia. Ma ricordo che già una sola vita è sacra.

Realisticamente si può nutrire la speranza che un giorno le spade saranno spezzate per farne aratri?

Mi rendo conto che tutto quanto faremo nell’investimento per la pace non sarà mai abbastanza. Dico di più: mi fa male l’assenza di una azione più ferma, più determinata, più forte per la pace da parte di tanti governi, da parte delle superpotenze, da parte degli organismi internazionali. E sul dilagare del terrorismo – anche noi salesiani ne soffriamo in primo luogo in Africa, con molte vittime – non posso che ribadire: il terrorismo non ha nessuna giustificazione, nessuna. Per concludere: dobbiamo investire molto di più non negli armamenti, ma per dare la possibilità a tutti di vivere dignitosamente nei propri Paesi di origine, in Africa e non solo. In caso contrario le migrazioni si moltiplicheranno così come i drammi umani spesso ad esse legati. Già oggi – sentivo l’altro ieri la radio spagnola – il fenomeno coinvolge giornalmente ben più di cento milioni di persone. Non c’è dunque tempo da perdere: investiamo non in missili, ma nell’educazione e nella formazione professionale dei giovani, soprattutto là dove la carenza emerge impedendo loro di programmare un futuro di stabilità.

Giuseppe Rusconi

Artime: resto al servizio dei giovani in difficoltà – Avvenire

Si pubblica di seguito l’intervista al Rettor Maggiore, don Angel Fernàndez Artime, apparsa su Avvenire.

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Abbiamo incontrato il Rettor Maggiore dei salesiani, don Angel Fernàndez Artime, alla vigilia della partenza per Roma, domenica scorsa prima della celebrazione che ha presieduto nella Basilica di Maria Ausiliatrice dove ha consegnato il crocifisso a 13 figlie di Maria Ausiliatrice e 24 salesiani in partenza per le missioni.

Cosa significa per il 10° successore di don Bosco e per la famiglia salesiana diventare cardinale?

Per me e per tutti noi salesiani è stata una notizia del tutto inaspettata ma che ci conferma l’attenzione del Papa nei confronti della nostra famiglia religiosa. Se ha ritenuto opportuno di contare su di me per un servizio alla Chiesa come salesiano, con grande umiltà e serenità offro la mia disponibilità.

Don Bosco ci ha raccomandato di rispondere sempre con entusiasmo a ciò che il Papa ci chiede perché lui amava profondamente la Chiesa e il suo Pastore e per noi questo è un fondamento del carisma. Sicuramente altri vedono onori in queste nomine: con grande onestà e sincerità io vivo questo momento soltanto nella prospettiva del servizio.

Finora ho servito come prete religioso, sto servendo come rettor maggiore dei salesiani e con questo spirito affronto il prossimo servizio alla Chiesa che mi verrà chiesto dal Pontefice.

Certamente non posso non riconoscere la sua grande fiducia che mi fa vivere questo momento con ancora più grande responsabilità.

I 14 mila figli di don Bosco, tra cui 130 vescovi, spendono la vita in 135 nazioni del mondo per stare accanto ai giovani che hanno avuto di meno. Sicuramente lei, da cardinale salesiano, continuerà ad avere una attenzione speciale ai giovani.

Siamo nel mondo con la missione di accompagnare i giovani, i ragazzi e le loro famiglie, perché oggi senza le famiglie possiamo fare poco. E cerchiamo di stare accanto soprattutto ai giovani i più poveri.

Nel mio servizio come cardinale non so cosa mi chiederà il Papa ma cercherò di farlo al meglio delle mie possibilità: certamente io sono salesiano e la mia scelta religiosa che feci da ragazzo – grazie alla grande fede dei miei genitori, una famiglia di pescatori di un piccolo paese delle Asturie in Spagna che pur avendo bisogno delle mie “braccia” mi dissero «Figliolo,
è la tua vita se questo ti farà felice, vai» – la porto nel mio bagaglio personale.

Sono figlio di don Bosco, amo i giovani, soprattutto chi fa più fatica, mi sento a mio agio tra i poveri e le famiglie. Ho sempre voluto vivere nelle missioni o in mezzo ai più bisognosi e tutto questo lo porto e lo porterò sempre nel mio cuore qualsiasi sia il servizio che mi attende.

Da quando ho cominciato la prima esperienza con i salesiani mi sono sempre sentito felice in mezzo ai giovani e, 45 anni dopo la mia prima professione, sono qui e sono felice.

Cosa cercano i giovani e quali sono le risposte dei salesiani, come parlare di Gesù oggi alle nuove generazioni?

È difficile rispondere perché i giovani nel mondo vivono realtà molto diverse. Pensando ai nostri giovani qui in Europa riconosco che è un tempo molto difficile. Essere giovane oggi non è più facile che 25 anni fa. Hanno più mezzi che possono aiutare e anche rovinare, c’è tanta mancanza di paternità e maternità nella vita di tanti ragazzi e ragazze.

Abbiamo una generazione tra le più istruite nella storia delle nostre nazioni ma al termine degli studi non hanno le possibilità di trovare un lavoro che permetta loro progettare il futuro: immagino quanti genitori soffrono per questo.

In Italia e in Spagna, per esempio, l’età media dei giovani che riescono a diventare autonomi è oltre i 30 anni, una situazione insostenibile che non dà speranza. Anche per questi motivi non è semplice parlare di Dio ai giovani che vivono questi problemi.

L’unico modo per confortarli è camminare insieme a loro: spesso pensiamo che siano i giovani che devono venire in Chiesa. Ma da salesiano ho imparato che, come faceva don Bosco, siamo noi che dobbiamo andare a cercarli ovunque si trovino.

Questa è la grande sfida per la nostra Chiesa: un cammino di vicinanza, di prossimità, incrociare le loro strade. È il modo migliore per poter parlare loro di Gesù.

“Niente più bello del Cristianesimo”, l’Arcivescovo di Torino Repole a Valsalice

In occasione dei 150 anni della presenza salesiana a Valsalice, la redazione de Il Salice ha intervistato Mons. Roberto Repole, ex allievo di Valsalice. Di seguito l’articolo completo.

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In occasione dei 150 anni di presenza della comunità salesiana a Valsalice, abbiamo avuto il piacere e onore di incontrare e intervistare l’Arcivescovo di Torino, Mons. Roberto Repole, tra l’altro ex allievo di Valsalice.

Per cominciare, don Silvano Oni ha proposto un breve ricordo storico dei Salesiani a Valsalice, dalla scelta, alla nascita come collegio, alla sepoltura e successiva traslazione del corpo di don Bosco, fino alla nascita del liceo e alle personalità passate nella nostra scuola.

Subito dopo un’introduzione del Direttore don Alessandro ed un saluto del Preside Pace, i redattori presenti hanno potuto intervistare l’Arcivescovo.

Che reazione ha avuto quando è stato nominato dal Papa Vescovo di Torino?

Avevo già sentito qualche avvisaglia nei mesi prima, ma non avevo mai messo veramente in conto la possibilità. Ero ad Assisi il 15 febbraio 2022 quando il Nunzio del Papa mi ha chiamato. Avevo detto sì al Signore e non c’era motivo per rifiutare, anche se la mia vita sarebbe cambiata.

Come descriverebbe la sua vita in cinque parole?

Bellezza, gratitudine, trepidazione, responsabilità, e soprattutto fede.

Ha mai avuto ripensamenti circa la sua carriera ecclesiastica?

No, ma momenti di fatica ci sono stati e ci sono ancora oggi: è normale nell’affrontare la vita e le responsabilità.

Ci racconti una sua giornata tipo. Quali sono le principali attività svolte da un Vescovo?

La mia agenda è sempre piena, tra momenti di preghiera, incontri, udienze, celebrazioni, visite a Torino e Susa: le mie giornate sono sempre diverse, ma con la presenza costante di preghiera, pasti e famiglia.

Quando e perché ha deciso di diventare sacerdote?

Un prete di Druento, dove sono cresciuto, mi ha suggerito già a 11 anni di entrare in seminario. Però la decisione definitiva l’ho presa al terzo anno di Teologia, ma non in occasione di un evento particolare.

Da giovane faceva parte di un gruppo parrocchiale?

Sì, degli “Amici del pozzo” a Druento: è stato importante perché da ragazzo adolescente ci si deve staccare dalla famiglia, e se si ottiene da ciò un’autonomia sana si ha l’occasione di un potenziale di crescita grandioso.

Pensa che Valsalice abbia influenzato la sua scelta di studiare Teologia e di diventare prete?

In parte: già in seminario a Druento dagli 11 anni avevo una mezza idea, ma a Valsalice ho avuto l’esempio di molti preti che davano la vita per noi. Anche lo studio della filosofia e della letteratura greca e latina metteva comunque il gusto per un percorso teologico.

Cosa ne pensa della nostra scuola oggi? È cambiata da quando la frequentava lei?

Non la frequento abbastanza per dirlo, però qualche differenza c’è di sicuro: ad esempio gli insegnanti erano quasi tutti preti e in classe si era tutti maschi, fino all’anno successivo alla mia maturità, nell’86.

Si può fare scuola mantenendo un carisma e un messaggio cristiano? 

Secondo me in Italia fare scuola senza riferimenti alla tradizione cristiana è non fare cultura: ciò che siamo è impregnato di pensieri e pensatori cristiani.

Che ruolo hanno i social oggi nell’educazione alla fede di un giovane? I social possono essere il campo di azione di una nuova evangelizzazione?

I social sono molto utili per veicolare velocemente le proposte della Chiesa in rete. Però non dobbiamo illuderci che l’incontro con il Signore possa avvenire con qualche messaggio on line: l’incontro avviene tra persone vive. E poi bisogna far attenzione perché i rapporti li strutturiamo con il filtro dei social, quindi sono incontri frequenti ma non reali: l’abbraccio di un amico è diverso da un messaggio.

Che relazione esiste oggi tra i giovani e la fede? La fede di oggi è meno salda di un tempo o solo più “distratta”?

Gli adulti devono smettere di dire che a voi giovani non interessa. Semplicemente avete una gioventù diversa dalla nostra e certamente ci sono stati dei cambiamenti: prima era normale avere un riferimento nella Chiesa, oggi non più, ma non vuol dire che sia carente l’apertura alla fede. Vedo potenzialità nella ricerca di qualcosa di solido sul piano spirituale: è la Chiesa che deve adattare la proposta della fede a voi e alle vostre esigenze.

Il cristiano e la partecipazione politica: quale deve essere il criterio di avvicinamento e di partecipazione alle tematiche sociali? 

Bisogna sentire il dovere di partecipare anche attivamente alla vita pubblica, e il criterio deve essere il Vangelo, che riguarda la vita. E quindi anche come viviamo insieme e ci strutturiamo. Dalla fede si comprende un nuovo modo di strutturare i rapporti, con amore, giustizia e misericordia, recuperando la parte migliore di noi, non solo come cristiani, ma anche come uomini e cittadini.

Cosa legge negli occhi dei giovani oggi?

Tanta bellezza. L’attenzione al rispetto di tutti, mentre prima si creavano spesso barriere. Poi un’attenzione “pratica” alla natura e alla terra, mentre noi eravamo figli del grande sviluppo. Ma ci sono anche paure: è meno scontata la certezza di essere sostenuti da un affetto stabile, il che è una paura normale nell’adolescenza, ma per voi sembra essere più presente e duratura. Inoltre sembra che il vostro valore dipenda dalle prestazioni richieste più che da voi stessi: ci sono grandi attese su di voi che forse potrebbero schiacciarvi.

Un insegnamento di don Bosco che ha sempre avuto caro?

Alle medie leggevo raccolte di molti santi, poi ho aperto le biografie. Bisogna prendere la persona, non le sue frasi: Don Bosco era un prete intelligente e intraprendente, che ha visto nei giovani il futuro.

 

Segnaliamo anche la notizia a cura di Marina Lomunno apparsa su La Voce e il Tempo:

Il ritorno a Valsalice dell’Arcivescovo Roberto

«Bentornato a Valsalice caro Vescovo Roberto». È il saluto proiettato sullo schermo del grande teatro dell’Istituto salesiano, gremito da una rappresentanza dei 900 studenti del Liceo e delle Medie, insegnanti, genitori, ex allievi.

«Avremmo voluto partecipare tutti ma non si stavamo», ha precisato il direttore don Alessandro Borsello, che venerdì 3 marzo ha accolto mons. Roberto Repole, tornato nel «suo liceo». L’occasione, come ha introdotto don Silvano Oni ripercorrendo la storia dell’Istituto, il 150° anniversario della presenza a Valsalice dei salesiani: fu il predecessore di mons. Repole, l’Arcivescovo Lorenzo Gastaldi, a chiedere a don Bosco di aprire uno studentato in viale Thovez e il santo dei giovani fu seppellito qui dal 1988 al 1929, quando in seguito alla beatificazione l’urna con le sue spoglie fu trasferita nella Basilica di Maria Ausiliatrice.

Cresciuto con la sua famiglia a Druento, come ha spiegato rispondendo alle numerose domande preparate dagli allievi e dalle allieve della redazione de «Il Salice» il giornale web dell’Istituto, mons. Repole è entrato in Seminario a 11 anni e nella sua formazione scolastica giovanile i salesiani hanno avuto un ruolo importante: dopo il ginnasio a Valdocco ha conseguito la maturità classica nel 1986 presso il Liceo Valsalice. Commovente l’incontro con il suo insegnante di Filosofia e Storia, don Giovanni Fontana che ha ringraziato: «Qui ho incontrato insegnanti che mi hanno ‘fatto i muscoli’, ho imparato un metodo di studio serio e rigoroso, elementi importanti anche per il lavoro intellettuale», ha ricordato l’Arcivescovo rispondendo ai ragazzi che gli hanno chiesto cosa è rimasta nella sua formazione di prete e teologo, insegnante ed ora Arcivescovo del carisma salesiano. «Mi è rimasta l’attenzione alle persone più giovani anche perché ho passato molti anni ad insegnare e come eredità salesiana ho in mente alcuni professori, anche anziani, che avevano ancora il gusto di intrattenersi di spendere del tempo con noi allievi. Una testimonianza che poi ho cercato a mia volta di trasfondere con i miei studenti».

Tra le tante domande a 360° a cui l’illustre ex allievo non si è sottratto («perché si è fatto prete», «cosa ha pensato quando Papa Francesco l’ha nominato Arcivescovo», «quali libri sono fondamentali da leggere per ragazzi come noi», «quale musica ascolta») quella centrale: «Cosa legge negli occhi dei giovani oggi e cosa è per lei più importante?»: «Leggo tanta bellezza, l’attenzione al rispetto di tutti ma anche paure perché per voi è meno scontata la certezza di un affetto stabile. E noi adulti non vi dobbiamo schiacciare con le grandi attese che abbiamo su di voi. Ma innanzi tutto, come faceva don Bosco amarvi e cercare di rispondere alle vostre domande di senso». Infine «La cosa più importante per me? Non ho ancora trovano nulla nella mia vita che sia più bello del cristianesimo».

 

Valsalice: 5 domande a don Leonardo Mancini – Il Salice

La Redazione de Il Salice del liceo salesiano di Torino-Valsalice ha avuto modo di intervistare nelle scorse giornate l’Ispettore ICP don Leonardo Mancini.
Di seguito la notizia riporta sul sito dell’opera con il video-intervista.
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Intervista a cura di Lodovica Naddeo e Federico BasagliaVideo a cura di Serena Xu, consulenza tecnica di Alice Correndo, Carlotta Marian, Federica Molinero.
Durante il suo regolare programma di visite nelle realtà salesiane tra Piemonte, Valle d’Aosta e Lituania l’Ispettore Salesiano Don Leonardo Mancini ha fatto tappa anche nella nostra Valsalice, ventisettesima visita da inizio mandato.

 

Ovviamente i nostri redattori non si sono fatti sfuggire l’occasione di fargli alcune domande i cui temi spaziano dal suo ruolo istituzionale al rapporto con i giovani, tenendo comunque un occhio di riguardo per l’attualità, il tutto in cinque rapide domande.

Avvenire – Don Chavez: La “lezione” di Don Bosco, trarre occasioni da avversità

Da Avvenire, intervista a don Pascual Chavez Villanueva.

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Pochi giorni fa il messicano don Pascual Chavez Villanueva, 74 anni, rettor maggiore emerito della Congregazione dei salesiani (che ha guidato dal 2002 al 2014) ha tenuto all’Istituto Maria Ausiliatrice di Lecco una conferenza su “Educare all’ottimismo”. Lo abbiamo intervistato, in vista della festa di san Giovanni Bosco che si celebra il prossimo lunedì, a partire da questa intuizione.

Perché è importante oggi educare all’ottimismo e alla speranza?
La pandemia ci ha preso alla sprovvista. Eravamo convinti di essere nel tempo dell’ Homo Deus di cui parla lo storico israeliano Yuval Noah Harari, l’uomo che si crede immortale. E invece abbiamo toccato con mano la fragilità. Non avremmo mai pensato che una molecola avrebbe messo in ginocchio l’intera umanità. A questa crisi sanitaria ne sta seguendo una economica, con effetti devastanti, e un forte disagio sociale. In questo contesto dilagano rassegnazione, pessimismo e disperazione.

Cosa farebbe oggi don Bosco, in tempi di pandemia?
Le giovani generazioni non hanno conosciuto la guerra o la fame; erano abituate a misurarsi solo con virus informatici, per i quali esistono molti antivirus. Di qui lo choc. Io seguo in Rete molti youbuters e influencer: durante il lockdown erano letteralmente ammutoliti. Perché? Non erano preparati per affrontare gli eventi negativi, trasformandoli in piattaforme per un rilancio, che è proprio quanto ha fatto don Bosco. Le condizioni avverse per don Bosco (e quante ne ha sperimentate nella sua vita!) si sono rivelate occasioni per dare il meglio di sé, reagendo con resilienza. Una grande lezione per l’oggi.

Che differenza c’è tra un ottimismo generico e la speranza cristianamente intesa?
Il primo è espressione di un sentimento umano, lo sforzo, talvolta velleitario, di chi cerca vie d’uscita nel buio. La speranza del cristiano, invece, si fonda sul fatto che c’è stato Uno, una sola persona nella lunga storia dell’umanità, che ha vinto la morte. Non l’ha fatto con la tecnologia, non è ricorso alla clonazione, ma con l’unica energia capace di vincere la morte: l’amore. Il fatto che Dio Padre abbia resuscitato Gesù ci dà la speranza che nessun male è definitivo. E questo mette il cristiano nelle condizioni di uscire da sé, dalla sua autoreferenzialità, per vivere a servizio degli altri.

I giovani però si trovano a vivere in un mondo segnato da consumismo ed egoismo…
Educare alla speranza ci permette di affrontare le sfide della pandemia ma, soprattutto, il problema più grave in assoluto: l’immanentismo. Avendo chiuso l’uomo nell’aldiqua, non ci dobbiamo stupire se i ragazzi si accontentano di vivacchiare, sprecando la loro esistenza e se fanno tanta resistenza a prendere impegni definitivi, optando per scelte continuamente reversibili. Si vive l’oggi, senza una prospettiva di lungo termine. Per me questa è la sfida più impegnativa: c’è bisogno di educare all’Assoluto. Altrimenti, si riduce la vita a un mero ciclo biologico senza che abbia un senso.

Molti giovani, dopo aver ricevuto un’educazione cattolica, lasciano la Chiesa e prendono altri sentieri. Perché avviene questo e come si risponde a tale fenomeno?
I ragazzi stanno abbandonando la Chiesa perché non ne capiscono più il linguaggio e i riti. C’è bisogno un grande cambiamento nell’itinerario alla fede. Abbiamo seguito fin qui un percorso di tipo “cronologico”, proponendo via via la catechesi per fasce d’età, ma oggi questo schema non funziona più. Si deve passare ad un approccio “kairologico”, che mette al centro il “kairòs”, ossia situazioni ed esperienze che toccano i ragazzi nel profondo e sollevano interrogativi. È questo il motivo per il quale hanno molto successo i vari “Cammini”. Del resto, il modello-principe per educare alla fede è più che mai quello di Emmaus.

In che senso?
Gesù vede i discepoli disincantati, delusi. E cosa fa? Cammina con loro. Non rimprovera e non dà lezioni, ma ascolta. Il guaio, come educatori, è che spesso diamo ai giovani risposte a domande che non hanno, mentre fatichiamo ad ascoltarli davvero. Da dove si comincia? Un tempo si partiva dalla testa per arrivare al cuore, ora dobbiamo fare il contrario, stimolando l’immaginazione. Vale anche per l’educazione alla fede. L’ultima cosa che adolescenti e giovani oggi vogliono è che si tarpi le ali ai loro desideri e ai loro sogni. Don Bosco era maestro in questo e dobbiamo ispirarci a lui.

“Creare alleanze educative” – Intervista a don Alberto Lagostina

La Vita Casalese di giovedì 20 gennaio riporta un’intervista a don Alberto Lagostina, direttore dell’Opera salesiana di Casale Monferrato. Di seguito l’articolo.

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Coordinatore del lavoro missionario dei salesiani e dei laici della parrocchia del Valentino
Creare alleanze educative
Chiacchierata con don Alberto Lagostina, direttore dell’Opera salesiana

CASALE – Pubblichiamo un’intervista a don Alberto Lagostina, direttore dell’Opera salesiana, giunto nella parrocchia del Valentino a settembre 2021.

Ti presenti?

Sono don Alberto Lagostina, ho 62 anni, sono di Gravellona Toce (Vb), Diocesi di Novara. Dopo aver vissuto intensamente gli anni giovanili nel mio Oratorio e nel cammino della Pastorale giovanile della diocesi, sono entrato tra i Salesiani di Don Bosco con i primi voti religiosi nel 1981. Qui a Casale ho il mandato di Direttore della Comunità religiosa dei salesiani, dell’Oratorio e sono Amministratore parrocchiale. In pratica sono chiamato a coordinare il lavoro missionario dei Salesiani e dei Laici corresponsabili di questo territorio.

Qual è stata la tua esperienza di salesiano sacerdote?

Sono stato ordinato sacerdote nel 1989 ad Alessandria e ho svolto la mia missione tra i giovani in diversi oratori del Piemonte, Biella, Alessandria, Novara, Torino Michele Rua, Asti, Torino San Paolo.

Ho insegnato per diversi anni religione nelle scuole statali in collegamento con la pastorale dell’oratorio e a contatto con minori in situazioni di disagio sociale, italiani e non.

A Torino ho assunto la responsabilità di superiore della comunità religiosa e, oltre all’attività pastorali ordinarie di un oratorio, ho condiviso il lavoro d’equipe con educatori professionali per la gestione di un Centro diurno aggregativo e di una Comunità per minori stranieri non accompagnati. Ringrazio il Signore del percorso vocazionale in cui mi ha condotto: ho incontrato tanti giovani generosi e altri più bisognosi di un sostegno nella vita. Tutti, giovani e adulti, mi hanno insegnato qualcosa.

Che ambiente hai trovato qui a Casale (criticità, risorse…)?

L’inserimento qui a Casale è stato facilitato dalla ricchezza dell’ambiente che ho trovato, molto in sintonia con le mie precedenti esperienze pastorali ed educative. Ho trovato una comunità cristiana composta da adulti e giovani che hanno interiorizzato il sistema preventivo di don Bosco: un cammino spirituale con un’attenzione privilegiata all’accompagnamento delle giovani generazioni e l’attenzione ai più poveri. E’ interessante raccogliere i frutti di un cammino centenario di una comunità che attraverso l’oratorio e la parrocchia ha consolidato una tradizione che si proietta nel futuro con l’accoglienza dei giovani di oggi, così come sono, per fare con loro un pezzo di strada.

Preziosa è l’esperienza di 25 anni di comunità residenziale per minori, di gruppo appartamento per i minori stranieri non accompagnati che ha intessuto un interessante rete con il territorio. Queste presenze vogliono essere per la nostra comunità un segno di accoglienza e di condivisione in un mondo che vive ondate di chiusura, muri, pregiudizi. Notevole è il lavoro di sostegno dei volontari della Caritas parrocchiale per tante famiglie bisognose, in collegamento con la Caritas diocesana.

Sono provocato positivamente dalla presenza di ragazzi in cortile dell’Oratorio e nei cammini formativi di ragazzi non battezzati o di altre religioni.

Rispetto al tema dell’educazione, secondo te, di cosa c’è più bisogno?

Più in generale ritengo che nel campo dell’educazione siano gli adulti ad essere disorientati. Figli di un mondo consumista, individualista e relativista, Il mondo variegato degli adulti dà segnali di difficoltà a dare orizzonti di ampio respiro e si trova spesso impreparato ad accompagnare i giovani nella loro crescita. La stessa riflessione della Chiesa vissuta nel Sinodo dei Vescovi sui giovani ha dovuto vivere un vero proprio capovolgimento di prospettiva. Si è passati da una domanda iniziale sul “Cosa deve fare la Chiesa per i giovani?” a “Come dobbiamo essere come Chiesa a fianco ai giovani?”. È quindi essenziale mettersi in discussione e verificare il modo di essere e di agire del mondo adulto ecclesiale.

Occorre mettersi in ascolto dei giovani: troppe volte noi adulti offriamo loro dei progetti preconfezionati o riversiamo su di loro un bagaglio di idee, di valori che sentiamo il dovere di comunicare, senza chiederci quale sia il loro vissuto, quali domande portano nel cuore e quali valori stanno vivendo. I giovani di oggi sono certamente cambiati e sono in continuo cambiamento rispetto al passato. Non abbiamo ancora realizzato quali cambiamenti antropologici stia portando l’evoluzione tecnologica dei mezzi di comunicazione (internet, social…)

I giovani sono, di fatto, portatori di valori che vanno riconosciuti e accolti, sono disponibili al dialogo e cercano adulti autorevoli che, con il loro vissuto coerente, siano disponibili a “perdere del tempo” con loro. Essi hanno bisogno di un vero e sano protagonismo, dove diventano, anche con fatica e sacrificio, costruttori di progetti che sentono significativi.

Hanno bisogno di uscire da sé per vivere esperienze di solidarietà. A noi adulti, oltre a diventare esperti di ascolto e capaci di lasciare il giusto spazio a loro, tocca costruire alleanze educative che testimoniano valori, fraternità e ricerca del bene comune, sia all’interno della comunità ecclesiale, sia nel rapporto con le altre agenzie che incontrano i giovani.

È una sfida che può essere affrontata solo con un’autentica spiritualità, un serio discernimento comunitario e un cammino sinodale a vari livelli.

Noi sacerdoti abbiamo il dovere di promuovere e accompagnare questo processo anche con attente azioni di governo che facilitino il percorso. s.d.

Un caffè con Don Michele Viviano

In occasione del programma “Un caffè con…” viene presentato il neo Rettore della Basilica Maria Ausiliatrice, don Michele Viviano, proveniente dall’Ispettoria Salesiana Sicula (ISI), da Catania.

Don Michele è stato accolto in questi giorni a Valdocco, avvenimento che ha suscitato entusiasmo anche tra i quotidiani più rinomati del sud d’Italia – come spiega don Michele nell’intervista – descrivendo il passaggio di consegna avvenuto con il suo precedessore don Guido Errico, con il quale ha intercorso un discorso significativo sull’importanza della “presenza in Basilica”, vista come luogo sacro ma soprattutto come occasione di contatto con la gente:

“starai a contatto con tante persone e capirai quanti miracoli fa Maria Ausiliatrice” – (don Guido Errico a don Michele Viviano).

Di seguito l’intervista:

Un caffè con Stefania De Vita: la mostra temporanea Lock Art e le nuove Sale della Famiglia Salesiana

In questi primi giorni di settembre, si è tenuta l’intervista con la Direttrice del Museo Casa Don Bosco Stefania De Vita per il programma televisivo “Un caffè con…”. L’intervista ha riguardato la mostra temporanea “Lock art”, appena inaugurata, e le nuove Sale della Famiglia Salesiana.

Grazie ai nuovi spazi dedicati alle figure più significative della missione educativa salesiana, Museo Casa Don Bosco si completa, anche se – come affermato dalla Direttrice Stefania De Vita – “ciò avviene in un contesto in continua evoluzione, in quanto non conclude la sua fase espositiva”.

Da testimoni di santità (come Maria Domenica Mazzarello) a figure significative che hanno fatto della propria vita un “portabandiera del carisma salesiano”, nel Museo si respira come “dal cortile di Valdocco si è riusciti a fare un giro intorno al mondo incontrando i cuori e le menti di persone che ancora oggi ci accompagnano ciascuno a suo modo” – afferma la Direttrice.

A dicembre e nei mesi a seguire, presso il Museo Casa Don Bosco, saranno presenti diverse mostre particolarmente significative: una programmazione in continua crescita che desidera stupire il visitatore e rendere sempre più omaggio alla Famiglia Salesiana.

“Un caffè con Don Alejandro Guevara” – Intervista al Direttore della Comunità Salesiana Maria Ausiliatrice

In questi primi giorni di settembre, all’ombra dell’Ausiliatrice, si è tenuta l’intervista per il programma televisivo “Un caffè con…” assieme a Don Alejandro Guevara, nuovo Direttore della Comunità Salesiana Maria Ausiliatrice. Proveniente dalla Spagna e presente a Valdocco da più di un anno, con questo nuovo incarico don Alejandro cura non soltanto le mansioni direttive della propria Comunità, ma anche l’accoglienza dei pellegrini e dei giovani in Basilica al fine di far vivere e trasmettere loro il carisma salesiano e l’esperienza di Don Bosco.

Vivere a Valdocco, in modo particolare per i tutti Salesiani, penso sia un grande dono di Dio che riceviamo.

Una bella responsabilità che abbiamo come Salesiani qui a Valdocco è quella di trasmettere il carisma salesiano ai giovani. Per raggiungere questo scopo abbiamo la maestra: Maria Ausiliatrice.

Parlando delle sue origini, l’affetto che lega la Spagna alla figura di Don Bosco risale al lontano 16 febbraio 1881 con l’invio dei missionari salesiani partititi da Valdocco per la città di Utrera.

Nell’intervista, don Alejandro affronta differenti temi legati al suo nuovo incarico, come la diffusione della devozione a Maria Ausiliatrice, le sfide attuali per Valdocco e per la Basilica nonostante la pandemia, il “Valdocco di Don Bosco” ovvero quale Valdocco vorrebbe oggi Don Bosco per i giovani e per il mondo.

Di seguito il video dell’intervista con don Alejandro Guevara.