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VIS – Un Mondo possibile n°64: la pandemia, #restiamoattivi e un forno speciale a Betlemme

L’ultimo numero della rivista VIS (Volontariato Internazionale per lo Sviluppo), “Un Mondo Possibile – n°64“,  riporta alcune riflessioni dei giornalisti Riccardo Iacona della RAI e Francesco Ognibene di Avvenire, oltre all’analisi dell’economista Gianni Vaggi relativamente ad alcuni aspetti legati al dialogo interreligioso e alle identità nazionali dell’enciclica Fratelli tutti.

L’associazione VIS, nata nel 1986 su promozione del Centro Nazionale Opere Salesiane (CNOS), si ispira al messaggio di San Giovanni Bosco e al suo sistema educativo preventivo.

Di seguito una breve descrizione del contenuto dedicato al numero 64 della rivista e il rimando al pdf completo.

IN QUESTO NUMERO
Nel numero di Natale ci siamo lasciati ispirare da papa Francesco. Le sue parole hanno guidato l’analisi dei due giornalisti che hanno collaborato a questo numero, Riccardo Iacona della RAI e mentre una analisi socio politica di alcuni aspetti legati al dialogo interreligioso e alle identità nazionali dell’enciclica “Fratelli tutti” è offerta dall’economista Gianni Vaggi.

Cuore della rivista è il forno di Betlemme, che da 130 anni vende pane e lo regala a chi non può permetterselo anche grazie alla campagna “Pane per Betlemme”.

Per quanto riguarda le attività del VIS, in questo numero potete leggere due storie di riscatto e di successo di due potenziali migranti divenuti piccoli imprenditori in Senegal ed Etiopia. Dal Ghana riportiamo le vicende di Ernest e O’Brien, che hanno deciso di diventare agricoltori organici. Il tema dell’uguaglianza di genere è invece al centro del racconto dalla Repubblica Democratica del Congo.

Editoriale

Un Natale diverso, di Nico Lotta

Speciale Covid-19

  • La pandemia permanente, di Riccardo Iacona
  • Fraternità, antidoto per le strumentalizzazioni politiche e religiose, di Ilaria Nava

Speciale Progetti Natale

  • Etiopia, di Renato Mele
  • Ghana, di Gianpaolo Gullotta
  • D.Congo, di Ben Kamuntu
  • Senegal, di Tiziana Meretto
  • Palestina, di Luigi Bisceglia

Reportage

Pane per Betlemme

Vita Associativa

La risposta del VIS all’Emergenza Covid-19, di Manuel Morini

Oggi si parla di…

  • L’educazione salverà il mondo: un patto educativo fatto di amore e responsabilità, Elisabetta Gatto
  • Quella compagnia paterna che veglia sul nostro smarrimento, Francesco Ognibene

Dal Direttore

 La pandemia, #restiamoattivi e un forno, di Luca Cristaldi

Professione perpetua di don Matteo Vignola da Betlemme il 22 novembre

Il confratello Matteo Vignola farà la professione perpetua domenica 22 novembre a Betlemme. Di seguito il link per seguire l’evento in diretta:

Venerdì 20 novembre, per le comunità che lo desiderano, il confratello Matteo Vignola darà un pensiero di buonanotte alle ore 19.00 via piattaforma Meet.

 

 

Salesiani Betlemme: l’azienda viti-vinicola Cremisan con il vino della Pace

Il vino della pace nella cantina dove lavorano cristiani e musulmani. A Betlemme in Palestina i Salesiani hanno aperto l’azienda viti-vinicola Cremisan per avvicinare i popoli. All’esterno guardie armate, all’interno un’oasi verde.

Si riporta l’articolo pubblicato ieri sul Corriere della Sera, a cura di Luciano Ferraro, nella sezione “Buone Notizie” riguardo il lavoro svolto dai Salesiani in Palestina con la nuova azienda viti-vinicola.

Il vino della pace nella cantina dove lavorano cristiani e musulmani

Martedì 8 Ottobre 2019 (buonenotizie.corriere.it) – Le grandi mani nodose di Bashir Sarras frugano tra le foglie di un alberello d’uva bianca e portano sotto il sole di Betlemme grappoli enormi. È un contadino palestinese che lavora la terra con un mulo, come ai tempi di Cristo e di Ponzio Pilato. L’uva ha forse lo stesso Dna di quella che, come è indicato nella Bibbia, trovarono i 12 inviati di Mosè nella valle dell’Escol:

«Vedi quanto è grosso quel grappolo d’uva? Ci vogliono due uomini per trasportarlo su un’asta».

La vita di Bashir è cambiata quando è diventato un «beneficiario». Si chiamano così i contadini che hanno ricevuto la terra dai salesiani in Terra Santa, con in testa il veneziano don Pietro Bianchi, che guida la cantina Cremisan. L’avamposto cattolico in Israele si trova tra Betlemme e Gerusalemme. La zona è classificata come C: paesi palestinesi con giurisdizione israeliana. La Corte Suprema di Tel Aviv, dal 2015, ha dato il via libera per l’estensione del muro di più di 700 chilometri anche nella valle di Cremisan. Nonostante le proteste dei cittadini (a maggioranza cristiana) di Beit Jala, e dei religiosi, contrari al progetto di una barriera di 1,2 chilometri con l’effetto di dividere il convento femminile da quello maschile.

I salesiani non si sono arresi. E hanno trovato il modo di unire i popoli divisi da politica e religione. Hanno costruito una grande cantina, sotto lo sguardo bonario di Don Bosco, che campeggia nella facciata esterna. Hanno chiamato un enologo internazionale come Riccardo Cotarella (lo stesso di D’Alema, Vespa e di altre 120 cantine nel mondo, tra cui quella della comunità di San Patrignano). E hanno assunto operai musulmani e cristiani. Fianco a fianco.

Il convento che ha generato la cantina è stato costruito nel 1885. All’esterno ci sono guardie armate. All’interno è un’oasi verde di pace. Arrivano gli sposi di ogni rito, per le foto. Una coppia araba si fa largo con una limousine bianca, enorme e con lo stereo a tutto volume.

«Questo – racconta don Pietro, massiccio e sorridente – è il luogo della convivenza pacifica . Abbiamo misure di sicurezza, ma sono soft. Abbiamo cambiato tre agenzie di vigilanza. Ci siamo liberati degli sceriffi con giubbotto anti proiettile che urlavano tutto il giorno. La gente della valle è orgogliosa di poter lavorare e visitare una cantina così bella in Palestina. Il nostro forno distribuisce gratis il pane a 160 famiglie palestinesi e lo vende ad altre 100 ad un prezzo irrisorio. Quando siamo arrivati il vino era così mediocre che nelle famiglie si beveva solo succo d’uva. Adesso vendiamo il vino anche a Gerusalemme, nella casa-ristorante-hotel dei francescani e anche in molti ristoranti».

I vigneti si affacciano su una collina che fino a qualche anno era quasi disabitata. Ora è ricoperta da case di famiglie israeliane.

«Le abitazioni dei palestinesi sono state fatte saltare – indicano i salesiani – noi abbiamo buoni rapporti con il governo di Tel Aviv. Le nostre porte sono aperte, aiutiamo i poveri, stiamo con i più deboli. Produciamo 170 mila bottiglie di vino».

Fuori dal convento, con il buio, i ragazzi palestinesi portano griglie e birre: ridono e cantano fino a notte, guardando le luci di Betlemme e Gerusalemme. Dopo una discesa nel bosco, tra i resti di un’antica villa, il filo spinato e i cavalli di Frisia, appare la cantina. Ci lavorano 15 operai e impiegati. All’orizzonte la città biblica di Gilo.

«Tra noi – spiega Fadi Batarseh, 28 anni, occhi azzurri e sguardo dolce, l’enologo laureato a Viterbo – non c’è razzismo. Viviamo assieme, musulmani e cristiani e vendiamo il vino anche a ristoranti con cucina ebraica. Quando ci sono le feste religiose o nazionali ognuno ha il diritto di comportarsi come crede o di assentarsi. Durante il Ramadan i musulmani non bevono neppure l’acqua, ed è dura sotto il sole. I vigneti si trovano ad una altitudine da 700 a quasi mille metri, in terrazzamenti dove si coltivano anche gli olivi, a volte antichi».

La produzione di vino è iniziata nel 1863 grazie a don Antonio Belloni, missionario ligure che voleva aiutare i ragazzi orfani della valle. La prima cantina è stata costruita nelle grotte naturali, poi è stato edificato il convento e in seguito l’edificio che ospita botti e barriques. Nel 2013 la cantina è stata rinnovata, sono arrivati un trattore Fiat, un frantoio regalato dall’ex sindaco di Orvieto Stefano Cimicchi, un distillatore piemontese con il quale si ricava un brandy invecchiato 35 anni.

«Quando a Beirut una ragazza che lavorava con i salesiani mi disse che c’era una cantina da aiutare a Betlemme, ho chiesto una mano agli amici imprenditori. È scattata – racconta Cotarella – la molla dell’altruismo per questa terra di nessuno. Mi sono immerso tecnicamente e umanamente in questa nuova avventura. Qui sono tutti fratelli, nonostante culture e religioni diverse».

Anche grazie alle donazioni della Chiesa austriaca, la cantina storica (ma fatiscente) che produceva 20 mila bottiglie si è trasformata. Ora dispone di buoni macchinari enologici.

«Puntiamo a 300 mila bottiglie. Presto – annuncia Cotarella – arriverà anche la birra Cremisan».

A due passi dai checkpoint, dalle strade blindate, dalle città in perenne stadio d’assedio, Cremisan si è lasciata alle spalle il periodo della beneficenza. E con la forza delle energie condivise dalla squadra multireligiosa in maglietta blu, è diventata una azienda vinicola pronta a conquistare i mercati mondiali. Il professor Attilio Scienza, l’Indiana Jones dei vitigni, ha analizzato terre e piante di Cremisan. La gamma dei vini si chiama Star Bethlehm, la stella cometa,

«ma senza enfasi religiosa, vogliamo vendere i vini perché sono buoni non per il richiamo religioso».

Mentre in Israele le cantine hanno scelto i vitigni internazionali (dal Cabernet franc al Sauvignon), Cremisan ha puntato soprattutto su due autoctoni, il bianco Dabouki che profuma di ginestra e somiglia al siciliano Cataratto; e il rosso Baladi, una sferzata agrumata e speziata, simile all’Aglianico, con eleganza beneventana e profondità irpina.

«Qui la natura è rigogliosa come ai tempi della Bibbia e dei grappoli così grandi da dover essere trasportati con un’asta», dice don Pietro. La nostra sfida è far capire che si può convivere in armonia nella natura, rispettando ogni diversità».

 

Avvenire – Pane ed educazione per la Terra Santa: le sfide dei salesiani

Da scuole e oratori a “laboratori di carità” come il forno o la cantina, le opere sui passi di Don Bosco per garantire ai giovani e agli ultimi un futuro nel segno della speranza.

Si riporta il Reportage pubblicato da Avvenire domenica 18 agosto 2019 a cura di Filippo Rizzi, inviato in Terra Santa.

Essere dei buoni cristiani e onesti cittadini è stato uno dei richiami più forti di san Giovanni Bosco ponendo un occhio di riguardo all’importanza di educare i giovani e a cercare di garantire, anche ai più disagiati, un futuro che coniughi dignità, riscatto e speranza. A questo mandato del fondatore della Società di San Francesco di Sales restano fedeli anche oggi in Terra Santa i suoi figli, i salesiani, un drappello di valorosi religiosi dai 30 ai 90 anni di età, molti dei quali di origine italiana. Una presenza che risale al 1891 e che è confermata da opere simbolo, collocate spesso ai margini del “muro della discordia” che divide israeliani e palestinesi. Fra le più conosciute la cantina di Cremisan, da cui ogni anno escono 180mila bottiglie, tra cui pregiati brandy e creme di limoncello, vendute, nonostante gli alti costi di spedizione, in tutto il mondo e che, sorta nel 1885, ancora oggi consente la produzione del “vino” da Messa per cattolici e ortodossi; e poi il forno di Betlemme, il più antico della città, rimasto aperto anche durante i periodi di coprifuoco durante l’intifada, che da anni riesce a distribuire gratuitamente il pane a cento famiglie bisognose e a sfornarne 15 di tipo diverso per i palati più variegati.

Si tratta di realtà e “patrimoni di carità” che hanno permesso negli anni alla Famiglia religiosa di autosostenersi e così assicurare, di riflesso, la sopravvivenza di importanti avamposti educativi in questa terra. Basti pensare agli oratori, alle parrocchie e alle scuole professionali o al prestigioso istituto universitario di Ratisbonne a Gerusalemme dove molti salesiani in formazione soggiornano per lunghi periodi «per approfondire le radici teologiche e bibliche del rapporto tra giudaismo e cristianesimo », ci rivela il 31enne egiziano Edward Gobran. Ad essi si aggiunge il liceo di indirizzo tecnologico di Nazareth, ritenuto dallo stesso governo israeliano per il suo livello di istruzione un istituto di eccellenza.

«Il nostro obiettivo – racconta Adele Amato a capo del Planning and development office dell’ispettoria salesiana del Medio Oriente – è quello di vigilare sulla trasparenza dei donatori, riservando la massima attenzione alla gestione delle risorse e alla sostenibilità. Il nostro sogno? Liberare il più possibile i nostri padri da ruoli amministrativi per restituirli alla loro vocazione delle origini: educare i giovani».

Una prospettiva che trova d’accordo l’attuale superiore dell’ispettoria salesiana del Medio Oriente, che comprende oltre a Israele, Palestina, il Libano, l’Egitto, la Siria e solo fino a pochi anni fa l’Iran e composta da una settantina di religiosi. Spiega il venezuelano don Alejandro José Leòn Mendoza:

«Il fine ultimo è proprio questo: coinvolgere sempre più le forze laiche attraverso un progetto di accompagnamento e formazione».

Tra i progetti infatti messi in cantiere dai missionari salesiani, nel corso di questi anni in accordo con il patriarcato latino di Gerusalemme, vi è la trattativa, «incominciata più di vent’anni fa», tiene a precisare don Alejandro, per la cessione in leasing di una parte dei terreni di Beitjemal, la casa fondata dal salesiano don Antonio Belloni che si estende su 103 ettari lungo le colline della Giudea, a 30 chilometri da Gerusalemme. Gli appezzamenti sono destinati dal piano regolatore della vicina città di Beit Shemesh ad aree edificabili per l’espansione del centro urbano. Una vicenda quest’ultima salita agli onori delle cronache in Italia per la ricostruzione dei fatti distorta e affrettata fornita da un articolo del marzo scorso su “L’Espresso” che trasformava questi eroici figli di Don Bosco in “palazzinari di Terra Santa”.

«La realtà dei fatti è molto diversa – sottolinea don Alejandro José Leòn Mendoza – . La cessione in leasing consentirebbe alla nostra Congregazione di poter contare su introiti che permetterebbero di realizzare una serie di attività a beneficio dell’intero territorio e delle minoranze cristiane, a partire dal sostegno alle opere del patriarcato di Gerusalemme, destinatario della metà dei ricavi».

E aggiunge un particolare:

«Potremmo così rilanciare strutture come Cremisan su cui si potrebbe avviare una ristrutturazione capace di trasformare il complesso in una casa di formazione permanente per lo studio della Bibbia e della spiritualità salesiana».

E a colpire della vasta casa di Bejtgmal, che in passato è stata un’ex scuola agricola, è il silenzio che la circonda con i suoi uliveti secolari. Ma anche la storia che vi si respira: la tradizione vuole che qui riposi, in un sepolcro, il corpo del martire Stefano. Sempre tra queste mura ha prestato il suo ministero il coadiutore salesiano Simon Srugi, oggi venerabile e ricordato tuttora per la sua assistenza medica ai poveri.

«Il nostro essere in questo angolo di Israele in pieno contesto ebraico – racconta il direttore della struttura, il salesiano Gianmaria Gianazza, classe 1943 con una specializzazione in lingua e letteratura araba sui manoscritti cristiani all’Università dei gesuiti di San Giuseppe a Beirut e allievo proprio in queste discipline del gesuita Peter Hans Kolvenbach– consente di far sperimentare ai pellegrini in visita un’autentica catechesi essenziale sul cristianesimo grazie alla bellezza del paesaggio».

Un “vendita” dei terreni che potrà dare un po’ di ossigeno e fiato per

«rimettere in sesto le nostre opere che necessitano di interventi urgenti come l’oratorio, il centro giovanile, il nostro museo dei presepi ma anche le aule scolastiche»,

osserva il salesiano originario di Aleppo, don Bashir Souccar, direttore della scuola tecnica di Betlemme frequentata da 180 ragazzi al mattino e altrettanti nel pomeriggio.

Fra i luoghi e presidi formativi c’è quello di Nazareth con le sue scuole, frequentate da circa 400 studenti (in maggioranza musulmani), tra primaria e secondaria con l’indirizzo tecnologico (considerato un trampolino di lancio a chi si diploma per accedere alle più prestigiose università di Israele, in particolare alle facoltà di ingegneria) assieme all’oratorio.

«In ogni contatto diretto con i giovani – osserva il direttore di quest’opera il veneto don Lorenzo Saggiotto – cerchiamo di investire molto sui valori umani sulle orme di quanto ci ha trasmesso il nostro fondatore Don Bosco».

Un impegno educativo nel solco della recente Dichiarazione sulla fratellanza umana e sulla convivenza comune di Abu Dhabi firmata nel febbraio scorso da papa Francesco e dal grande imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyib. È il clima di accoglienza che si respira proprio tra le ampie navate della Basilica dedicata a Gesù Adolescente a Nazareth. Un luogo “molto salesiano” anche nella sua simbologia: non distante dall’ambone e dall’altare campeggia una bella icona di stile bizantino che ritrae Gesù con al suo fianco quasi a “guidarlo” il giovane salesiano san Domenico Savio.

«Un luogo di culto – annota don Saggiotto – che rappresenta un punto di riferimento per la vita comune non solo dei cattolici che sono una minoranza ma anche per i cristiani delle varie confessioni. Tutti qui si sentono figli della “stessa” parrocchia».

Un segno quasi profetico che ha soprattutto il sapore della testimonianza. Simile alla frase ispirata da Don Bosco che questo piccolo e variegato “esercito” di preti porta incisa sul retro di una semplice croce metallica che indossano quotidianamente: «Studia di farti amare».

«È proprio così – è la riflessione dell’economo ispettoriale e direttore della cantina, il veneziano don Pietro Bianchi –. Vogliamo stare in mezzo ai ragazzi e alla gente del luogo avendo a cuore il loro sviluppo e il loro futuro nella terra di Gesù».

Viaggio in Cisgiordania e nella “casa del pane” salesiana

Terra Santa, giovani e un forno: questi gli ingredienti principali che videro l’inizio del lavoro instancabile di don Antonio Belloni che, con l’appoggio dell’amico Don Bosco, avviò un progetto – che ancora oggi resiste con Padre Piergiorgio Gianazza –  in quelle terre profondamente dilaniate dai conflitti.

Qui di seguito viene riportato integralmente l’articolo de “La Stampa” a cura della giornalista Cristina Uguccioni, che ripercorre le tappe principali di questa storia, testimoniando una convivenza sana tra religione, fratellanza e pace.

Betlemme e quel forno che unisce cristiani e musulmani
Storie di convivenza tra credenti in Cristo e islamici. Viaggio in Cisgiordania, dove i salesiani accompagnano e sostengono la popolazione rafforzando i legami fra le due comunità

Questa storia – che segue le tracce del buon seme della prossimità in un’area del mondo segnata da tensioni e conflitti – inizia nella seconda metà dell’Ottocento quando don Antonio Belloni, sacerdote ligure, parte in missione per la Terra Santa. Qui fonda una piccola congregazione impegnata nell’educazione dei giovani e apre alcune strutture in tre località. A Betlemme inaugura un grande orfanotrofio, in cui i bambini iniziano a vivere e studiare, e un forno per garantire il sostentamento dell’opera. Passano gli anni e, desiderando assicurare continuità alla propria congregazione, il sacerdote comincia a coltivare il desiderio di unirsi ai salesiani. Manifesta il proposito all’amico don Bosco, che acconsente. Nel 1891 i primi salesiani giungono in Terra Santa e si mettono al lavoro insieme a don Belloni.

Molte opere, un solo fine
Oggi in Palestina i salesiani (di una decina di nazionalità) continuano a operare nelle strutture ereditate dal sacerdote ligure e ne hanno fondate di nuove. A Betlemme l’orfanotrofio, che non ha più studenti interni, è una scuola professionale: 150 ragazzi dai 15 ai 18 anni seguono i corsi triennali mentre 160 dai 18 ai 30 anni frequentano quelli rapidi, della durata di un anno. È stato aperto un grande oratorio al quale si sono poi aggiunti un museo del presepio e un centro artistico per la produzione di manufatti in madreperla, ulivo e ceramica realizzati secondo la tradizione locale. Intanto, ininterrottamente dalla fine dell’Ottocento, il forno continua a offrire buon pane. Molte attività, un solo fine: educare i giovani preparandoli ad affrontare la vita, rafforzare il legame sociale, sostenere la popolazione prendendosi cura di chi ha più bisogno.

I buoni rapporti
«Qui a Betlemme, dove i cristiani costituiscono il 33% della popolazione (sono circa 12.000 persone), le nostre opere sono frequentate da giovani cristiani e musulmani (in maggioranza) e vi lavorano persone di entrambe le religioni. La convivenza è sempre stata buona e sono nati anche rapporti di sincera amicizia», racconta padre Piergiorgio Gianazza: 72 anni (di cui 56 trascorsi in Medio Oriente), è vice-provinciale dell’ispettoria salesiana del Medio Oriente (che comprende 6 nazioni), vive a Betlemme e insegna teologia dogmatica presso la sezione di Gerusalemme della Facoltà Teologica della Università Pontificia Salesiana di Roma.

Il sistema educativo
I genitori musulmani iscrivono molto volentieri i loro figli alla scuola salesiana, che considerano un polo educativo di eccellenza. «Si sono resi conto che non facciamo distinzioni in base alla fede e mostrano sincero apprezzamento per il sistema educativo di don Bosco i cui pilastri sono ragione, religione e amorevolezza: ossia dialogo e confronto, riconoscimento della dimensione religiosa come dimensione costitutiva dell’essere umano, stile accogliente e premuroso nei rapporti», dice padre Piergiorgio. «I nostri studenti musulmani sono per certi versi i nostri primi missionari fra la gente perché, forti della loro felice esperienza a scuola, sono in grado di smentire quanti continuano a considerare i cristiani dei miscredenti e dei colonizzatori».

L’operatore musulmano
Fra il personale vi è Khader Abdel Qader Dàadara – musulmano, 43 anni, sposato e padre di 5 figli, responsabile delle pulizie della scuola – che racconta: «Mi piace prestare servizio qui: lavoro insieme a un cristiano con il quale vado molto d’accordo, ci aiutiamo reciprocamente. Purtroppo il costo della vita a Betlemme è alto e per me, come per moltissimi miei concittadini, il salario non è mai abbastanza per sostenere le spese familiari. Fra i 50 dipendenti delle opere salesiane le relazioni sono buone, non condizionate né dai ruoli né dalla fede professata. Il rispetto reciproco e l’onesto svolgimento dei propri incarichi sono valori condivisi».

Il buon pane
Fra le opere ereditate da don Belloni vi è forno nel quale, sotto la supervisione dei salesiani, lavorano sei persone. Per lungo tempo questo panificio ha sostenuto principalmente i ragazzi dell’orfanotrofio e poi gli studenti della scuola. È diventato un punto di riferimento per l’intera popolazione a partire dalla seconda Intifada, quando nel 2002 Betlemme visse giorni durissimi, racconta padre Piergiorgio: «Il nostro forno riuscì ad assicurare il pane a tutti, anche gratuitamente; ricordo che si lavorava ininterrottamente giorno e notte. Da allora gran parte della cittadinanza fa la spesa qui e 120 famiglie bisognose della città (di cui ci prendiamo cura) ricevono i nostri prodotti a un prezzo mensile simbolico. Sono lieto che a Betlemme, il cui significato in ebraico è “casa del pane”, vi sia un forno che dà nutrimento alla popolazione e aiuto alle persone più vulnerabili contribuendo a sostenere i legami fra cristiani e musulmani».

La situazione in città
Secondo Khader, questa città, che per secoli è stata abitata da cristiani e musulmani, «si distingue per la tolleranza, il rispetto, la fratellanza tra i fedeli delle due religioni. Cerchiamo la reciproca comprensione e rapporti di buon vicinato. Le conversazioni e le discussioni che avvengono tra noi non sfociano mai in diverbi. Quando noi musulmani sentiamo le campane delle chiese, è come se ascoltassimo il richiamo alla nostra preghiera». E aggiunge: «I miei personali rapporti con i cristiani sono amichevoli. Ci rispettiamo, condividiamo i momenti di gioia e di dolore, cerchiamo sempre di andare d’accordo e di vivere in pace».

I pellegrini cristiani e la decisione di Arafat
In città la convivenza tra i fedeli delle due religioni è pacifica, osserva padre Piergiorgio: «Non si sono mai verificati scontri fra le due comunità né atti di fanatismo. Arafat stabilì che in otto cittadine palestinesi – fra le quali Betlemme – fosse sempre eletto un sindaco cristiano: questa decisione ha indubbiamente favorito rapporti normali fra le due comunità. Anche il continuo afflusso di pellegrini cristiani, che sostengono l’economia locale, e le molte opere educative, sociali, sanitarie edificate dai cristiani a beneficio della popolazione contribuiscono a mantenere il clima disteso. Sono stati inoltre avviati progetti interessanti per rafforzare i legami e promuovere la comprensione reciproca: alcuni intellettuali cristiani e musulmani, ad esempio, hanno dato vita a un gruppo che pubblica una rivista, Al liqà (L’incontro), nella quale ogni argomento è affrontato in modo approfondito dai due punti di vista: è una iniziativa lodevole, alla quale anch’io ho partecipato con alcuni scritti».

Il ruolo delle religioni
«Le persone di religione diversa che vivono autenticamente la loro fede e riescono a vivere insieme nella concordia testimoniano che le religioni promuovono la fratellanza e la pace», sottolinea padre Piergiorgio: «I problemi, purtroppo, sorgono quando le religioni vengono strumentalizzate per fini politici o economici che ne alterano l’essenza». Conclude al riguardo Khader: «Penso che la convivenza pacifica fra persone di fede diversa mostri al mondo che il linguaggio dell’amore, della tolleranza, del perdono e della comprensione fa evitare l’estremismo. Noi qui ci impegniamo a far crescere una nuova generazione, più istruita, più consapevole: ragazzi e ragazze capaci di camminare mano nella mano. Certamente esistono differenze tra musulmani e cristiani tuttavia possediamo principi comuni: la moralità, la legge di Dio».